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venerdì 15 febbraio 2013

L'analisi dei rookie NBA alla vigilia dell'All Star Game



Ci sono stati in passato draft ricordati per la quantità di talenti che hanno sfornato (1984, 2003) e altri per la penuria di buoni giocatori “prodotti”, quelli che si ricordano per una determinata scelta, azzeccata o bucata (Clicca qui per leggere le regole e i princìpi del draft). Anche l’ultimo, come tutti del resto, è stato ed è soggetto di analisi di esperti e meno esperti. Anche noi oggi tenteremo di dare un giudizio sui giocatori selezionati per questa stagione, su quelli dove c’erano maggiori aspettative e quelli che si sono rivelati migliori o peggiori di quanto ci si potesse attendere. 

Non possiamo non cominciare la nostra disamina dalla scelta numero 1: Anthony Davis. Il prodotto uscito da Kentucky era atteso ad una stagione da protagonista e molti vedevano in lui, dalle performance fornite al college, addirittura potenzialità da Hall of Famer. Per ora queste potenzialità si sono appena intraviste, frutto di una stagione difficile per i suoi Hornets dove anche il talento di Davis non si è notato, se non a sprazzi. Il più grande “difetto” potrebbe essere quello di non avere un ruolo definito per gli standard NBA: troppo piccolo ed esile per essere considerato un centro/ala forte, ma al contempo non un’ala piccola. Probabilmente è chiamato a metter su qualche muscolo per competere con i corpaccioni che si ritrova di fronte ogni sera, stando attendo a non esagerare con il tonnellaggio per non andare a snaturare il suo stile di gioco. Di sicuro il ragazzo ha qualcosa fuori dal comune e proprio la sua atipicità potrebbe aiutarlo con la NBA che si sta sviluppando, quella dove sempre più squadre adottano un sistema a 4 esterni. Per ora viaggia a 12,3 punti di media, 7,4 rimbalzi e quasi 2 stoppate a partita, certo non male per un rookie ma da lui era lecito aspettarsi qualcosina di più. 

La seconda scelta arriva sempre da Kentucky: Michael Kidd-Gilchrist. Ala piccola dotata di ottime qualità fisiche e atletiche, buon difensore, un all-around player, insomma i Bobcats sono voluti andare sul sicuro scegliendo un giocatore in grado di garantirgli da subito un buon contributo. Kidd-Gilchrist aveva cominciato bene la stagione, ma si è un po’ perso, seguendo l’andamento generale della squadra. E’ la prima volta nella storia del draft che le prime due scelte arrivino dalla stessa università, così come è un record il fatto che una scuola abbia mandato al piano di sopra ben 6 giocatori nello stesso anno: (sempre) Kentucky ha aggiunto Terrence Jones (18° scelta a Houston), Marquis Teague (29° a Chicago), Doron Lamb (42° ai Bucks) e Darius Miller (46° agli Hornets). 

Al numero 3 i Washington Wizards hanno chiamato la guardia da Florida Bradley Beal. Gran tiratore e ottimo realizzatore, probabilmente ha pagato un po’ l’adattamento all’NBA e il pessimo avvio dei suoi, ma con l’andare del tempo e delle partite sembra aver acquisito più confidenza e (complice anche il rientro di Wall) ha fatto registrare pochi giorni fa anche una partita da 28 punti. Viaggia a 13.3 di media, ma dal nuovo anno va oltre i 15, con il 37% da dietro l’arco. Alla 4 i Cavs chiamano la guardia da Syracuse Dion Waiters. Una delle scelte più controverse e contestate dai media, anche per il fatto che Waiters al college partiva dalla panchina e che, comunque, non era ritenuto in possesso di un talento tale da giustificare una scelta così alta. Ma sul parquet Dion ha smentito tutti viaggiando a 14 punti di media (secondo tra i rookie) e formando con Irving uno dei reparti dietro più giovani e di maggiore prospettiva. 

Thomas Robinson, la scelta numero 5 dei Kings, è di sicuro il più grande flop del draft 2012. 4,9 punti e 4,6 rimbalzi a sera in 16 miseri minuti di impiego. Ci si poteva aspettare qualche difficoltà tecnica del prodotto di Kansas, che al college doveva le sue fortune al fatto di essere di un altro livello fisico, atletico e “di voglia” rispetto ai suoi avversari, ma non fino a questo punto. In NBA queste qualità non sono bastate (almeno finora) ma di certo spendere una scelta così alta per poi non farla giocare praticamente mai, sembra un po’ una contraddizione, cosa che dai Kings ce la si poteva aspettare… 

Se Robinson è stato fin qui una delusione (lieti di essere smentiti in futuro), non si può certo dire lo stesso per la scelta dei Portland TrailBlazers alla numero 6: Damian Lillard. Il playmaker uscito da Weber State è probabilmente scivolato via dalle primissime scelte per il fatto di aver giocato per un college non conosciutissimo (per usare un eufemismo) non facente parte di una Conference prestigiosa (il ché vuol dire giocare la maggior parte della partite contro altri college non rinomati). Questo ha portato molte squadre a non credere al talento di Lillard e i Blazers a sfregarsi le mani ogni sera ammirando le performance del numero 0. 18,4 punti a sera, (stra)primo tra i rookie e 17° nella Lega, conditi da 6,5 assist e già favoritissimo per il premio di rookie dell’anno. Bravi i Blazers a credere in lui, dandogli da subito le chiavi della squadra e Lillard sta ripagando la fiducia cercando di trascinare la squadra alla postseason. 

Con la settima chiamata Golden State ha scelto Harrison Barnes. L’ala da North Carolina è stato fin qui un pezzo importante dei sorprendenti Warriors, sempre in quintetto per coach Jackson. Giocatore di grande eleganza e tecnica, non sta scintillando da un punto di vista statistico con 9,3 punti e 4,2 rimbalzi a sera, ma si è fatto notare fin qui per alcune giocate atletiche (chiedere a Pekovic) impressionanti anche in una super lega come la NBA. 

Sorprendente la scelta dei Raptors alla 8, con cui hanno scelto l’ala Terrence Ross. Giocatore non accreditato pre-draft di una chiamata nelle prime 10, anche probabilmente per essere uscito da un college come Washington (non tra i migliori della nazione). Minutaggio limitato per il rookie con i suoi 17 minuti scarsi, anch’esso si è fatto notare per le strabordanti qualità atletiche, tanto da essere chiamato a partecipare allo Slam Dunk Contest di questo fine settimana. 

Con la pick numero 9 i Detroit Pistons hanno scelto un big man dal fisico imponente come Andre Drummond. Visto il tipo di giocatore, molti consideravano il centro da Connecticut un possibile flop mentre altri vedevano in lui il “nuovo Howard”. Risultato: Drummond ha fatto ricredere molti suoi detrattori producendo fin da subito al piano superiore e nonostante non superi i 20 minuti di utilizzo, se si proiettano le sue statistiche per 48 minuti, il centro di Detroit è addirittura terzo per rimbalzi (18,3) e settimo per stoppate (4,1). Certo ancora c’è molto da lavorare per far sì che quelle proiezioni diventino concrete giocando più minuti, ed è altrettanto certo che ancora debba costruirsi un gioco offensivo credibile per gli standard NBA, ma quelle qualità fisico-atletiche non si “insegnano” e Drummond ha il potenziale per diventare un centro dominante anche a questi livelli, soprattutto considerando la sua età (appena 19 anni). 

I New Orleans Hornets hanno ricostruito grazie a questo draft l’asse play-pivot (estremizzando un po’ il concetto), e dopo aver preso Davis alla 1, con la numero 10 hanno chiamato Austin Rivers, da Duke. Il figlio di Doc, sta deludendo le aspettative con i suoi 6 punti a partita conditi da appena 2,2 assists, con un pessimo 55% dalla linea della carità in circa 23 minuti uscendo dalla panchina. Nonostante le cifre e il suo impatto parlino chiaro, in molti intravedono in lui un enorme potenziale ed un margine di crescita molto elevato, grazie un’esplosività fuori dal comune. 

Queste le prime 10 scelte del 2012. Ma il draft può nascondere molte gemme anche nelle scelte “meno nobili”. Innanzitutto da segnalare l’università di North Carolina: i Tar Heels oltre a Barnes, hanno mandato in NBA altri 3 giocatori come Kendall Marshall (13°), da molti considerato il miglior play di questo draft e che solo ora a Phoenix sta trovando un po’ di spazio con il nuovo coach, John Henson (14°), ala grande di 2,11 con grande apertura alare che sta trovando poco spazio ai Bucks, e Tyler Zeller (17°), centro di 2,13 con ottima tecnica che sta subito garantendo un buon contributo a Cleveland. 

Non può di certo passare inosservata la scelta numero 21, con la quale i Celtics hanno scelto Jared Sullinger. Sullinger poche settimane, se non giorni, prima del draft era dato da tutti i siti specializzati nelle prime 10 chiamate. E allora vi starete chiedendo: perché è scivolato così in basso? Il nome di Sullinger era spesso e volentieri accostato a voci su problemi alla schiena (fatto serio per un lungo). Le voci si sono intensificate sempre più fino al draft, dove 20 squadre hanno passato. Ma per i Celtics l’occasione era troppo ghiotta e così Ainge e soci non ci hanno pensato due volte prima di chiamare l’ala grande da Ohio State. Giocatore dotato di movimenti in post basso e un lavoro di piedi sopraffini e rari per un lungo (è figlio di un allenatore) e fin da subito la sua scelta ha prodotto dividenti per Rivers, da sempre riluttante a dare minuti e spazio ai rookie (chiedere a Melo, scelto con la 22). Peccato che dopo 45 partite arriva l’annuncio che Sullinger salterà il resto della stagione proprio per problemi alla schiena. Probabilmente un rischio calcolato per i Celtics, ma di certo un’assenza pesante (arrivata subito dopo quella di Rondo). 

Altri rookie partiti senza i riflettori puntati addosso sono (storicamente) quelli europei: Alexey Shved, non scelto al draft ma prelevato direttamente dal CSKA Mosca, a Minnesota sta sorprendendo tutti con il suo talento cristallino, viaggiando a 10,5 di media, 4,4 assist in quasi 28 minuti a gara e se trovasse un po’ più di continuità (e un po’ meno insofferenza in alcuni momenti) diventerebbe un giocatore importante anche oltreoceano; Jonas Valanciunas, centrone lituano scelto al draft 2011 con la quinta scelta e rimasto 1 anno in Europa, è arrivato in NBA con la curiosità di tutti addosso: finora non ha mostrato tutto il suo enorme potenziale e dopo un buon avvio di stagione con la partenza in quintetto, ha un po’ faticato anche per un infortunio che lo ha tenuto in borghese per diverse settimane. 

Storia particolare quella di Kyle Singler, scelto da Detroit, l’ala da Duke ha preferito andare 1 anno in Europa (Real Madrid) per giocare e fare esperienza, per poi tornare in America. 

Menzione obbligata per il rookie più vecchio della storia NBA: Pablo Prigioni. Il 35enne play argentino, dopo una vita passata in Europa e giocando ai massimi livelli di Eurolega, ha deciso di provare l’avventura americana in quel di New York City, portando minuti di qualità e tanta esperienza sulle spalle alla corte di coach Woodson e Carmelo Anthony. 

Probabilmente il vero giudizio su un draft non si può e non si deve dare prima di qualche anno e le fortune/sfortune dei giocatori dipendono molto da quale squadra ti chiama e in quale contesto ci si ritrova. Ma in fin dei conti è anche (se non soprattutto) questa la bellezza del draft, dove in pochi minuti, in una singola scelta si decidono vittorie di anelli o anni e anni di delusioni. Tutto per un nome pronunciato e per una scelta fatta. Questo è il Draft…This is NBA! 

Francesco Di Cianni

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